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Maggio 2020
Il ritorno in ufficio dopo mesi di mascherine e silenzi era surreale.
Io faccio i numeri. Faccio riunioni. Controllo. Non ho tempo per sentimentalismi.
Poi la vidi.
Era dietro il plexiglass della portineria, mascherina bianca. Gli occhi però spuntavano: grandi, attenti, curiosi senza essere invadenti. Un modo di guardare che non ti giudica. Strano. Scomodo. Interessante.
La salutai con il mio solito “buongiorno” secco — quello che delimita i confini e mantiene tutto al posto giusto. Dentro, però, una domanda semplice: chi è?
Andai avanti, passo calcolato, testa dritta. Ma ogni volta che attraversavo l’atrio la cercavo con lo sguardo. Non è poesia. È interesse: capire cosa rompe il mio ordine.
La sua presenza era un errore nell’algoritmo della giornata. Invece di risolversi, quel piccolo errore diventò un’attenzione che non riuscivo a spegnere. Curiosità pratica, niente drammi. Ma l’attenzione, mal gestita, diventa pericolosa.
Non lo chiamerei sentimento. Lo chiamerei chiarimento: capire come si comporta chi non recita. Lei non recitava. E questo mi intrigava — e mi innervosiva.
Non sono fatto per perdere tempo. Eppure qualcosa davanti al vetro mi teneva sveglio la notte. Avevo davanti qualcosa che avrebbe rotto il mio controllo. E io non ero pronto.
Marzo 2023
Quando la rividi, senza mascherina, fu come scoprire una verità rimasta nascosta troppo a lungo.
Il volto che avevo immaginato mille volte era lì davanti a me: più bello di ogni mia ipotesi.
Occhi grandi, labbra morbide, un sorriso che — ne ero sicuro — non poteva appartenere a nessun’altra.
Non sono un uomo che perde il controllo. Quel giorno, però, qualcosa scattò.
Mi avvicinai con una scusa banale. La chiamai “signora”: formalità finta, gioco vero.
Dentro osservavo ogni minima reazione. Quando sorrise, mi disarmò.
Da allora, ogni incontro fu una piccola scarica elettrica.
La cercavo sempre con la coda dell’occhio.
Paradossale: mi sorprendevo a sorridere a una donna solo per il gusto di vederla ricambiare.
Dicembre 2023
Il terzo incontro fu quello decisivo.
La rividi in un’altra sede e capii che non poteva più essere un caso. Tre volte, in tre posti diversi: era destino.
Quel giorno mi riconobbe subito. Mi sorrise, aveva cambiato colore ai capelli, rosso rame.
Le sorrisi senza accorgermene. Non era un gesto calcolato. Era spontaneo.
E come spontaneo era diventato restare in ufficio più a lungo, inventando pratiche arretrate, pur di incrociarla durante il suo giro di chiusura.
Era un rituale segreto, un piccolo appuntamento serale che aspettavo più di molte riunioni di vertice.
Forse lei non lo sapeva, ma quando sentivo i suoi passi nei corridoi il cuore mi batteva più forte.
Roberta, coi capelli rossi.
Da quei corridoi ai messaggi il passo fu breve.
Un numero scambiato quasi per caso e, all’improvviso, il telefono divenne il nostro filo invisibile.
Un buongiorno, una battuta, un pensiero a metà giornata.
Io, che con tutti ero sempre stato formale, con lei mi scoprii leggero, ironico, persino tenero.
La guardavo e mi dicevo: non posso.
Eppure, giorno dopo giorno, sentii con sempre più forza: non potevo farne a meno.
Le confessai la verità: ero sposato.
E aggiunsi qualcosa che non avevo mai detto a nessuno — che con lei provavo un’emozione nuova, diversa da tutto il resto.
Era proibito, rischioso, impossibile.
Eppure inevitabile.
Quando la vidi arrossire sotto il mio sguardo, in quell’ufficio silenzioso, capii che era già troppo tardi.
Non avrei più potuto tornare indietro.
Non so dire quando smise di essere soltanto “la ragazza della portineria” e divenne lei.
Forse quando arrossiva se la salutavo.
Forse quando cominciai ad aspettare il suo “buongiorno” come se mi spettasse di diritto.
Forse quando mi accorsi che, senza accorgermene, passavo più volte davanti alla sua postazione solo per incrociare i suoi occhi.
Aveva un modo tutto suo di sorridere.
Non era un sorriso di circostanza. Era un sorriso che mi spogliava delle difese, che mi faceva sentire meno manager e più uomo.
Ogni sera, durante il suo giro di chiusura, mi sorprendevo a restare oltre l’orario, seduto davanti al PC ormai spento, solo per sentirla dire: “Buona notte, dottore.”
Rispondevo con un “A domani, Roberta” che suonava banale, ma dentro mi bruciava.
Quando passammo dal “lei” al “tu”, qualcosa dentro di me si incrinò.
Il distacco che avevo sempre imposto smise di funzionare.
La sua voce — che mi chiamava Virgilio — mi fece tremare più di qualsiasi decisione presa in consiglio di amministrazione.
I suoi messaggi.
Piccoli, innocenti, sempre più frequenti.
E lì capii che non era più solo attrazione. Era bisogno.
Quella sera, nei corridoi ormai vuoti, accadde.
Parlavamo di nulla — forse del tempo, forse di un meeting — ma nei suoi occhi trovai la stessa inquietudine che avevo dentro.
Un passo avanti. Le nostre mani si sfiorarono, per caso.
Non fu uno sbaglio.
Fu l’inizio.
Il cuore mi martellava in gola. Avrei potuto tirarmi indietro, chiudere quella porta, fingere un’imprudenza.
Ma sapevo già la verità: era troppo tardi. Con un solo sfioro, Roberta era entrata in me. Non ne sarebbe più uscita.
Ero in terrazza, sigaro tra le dita, airpods nelle orecchie, call di lavoro.
Quando la vidi uscire, per un istante rimasi senza aria.
Gonna nera al ginocchio, camicia bianca che le accarezzava il corpo. Non era più la portiera. Era una donna che camminava come se il mondo dovesse aprirsi per lei. Ogni movimento disegnava una promessa.
La luce le cadeva addosso. La stoffa della gonna ne seguiva i fianchi. La camicia lasciava intravedere il collo, la pelle appena sotto e la forma generosa del suo seno. Mi prese una sensazione fisica: caldo, tensione, un desiderio che non volevo misurare.
Per un attimo pensai cose nette, brutali: prenderla adesso, farla mia qui, farle capire che il gioco era finito. Non frasi dolci. Ordini. Voglia concentrata e precisa.
Mi guardò. Io smisi di ragionare. Il sigaro rimase sospeso. La mascella si serrò. Per un attimo non respirai.
La guardai come si osserva un oggetto prezioso che si può rompere o possedere. Non era più curiosità: era fame.
Calcolai il rischio, feci i conti col danno possibile, e decisi che non mi importava.
Le feci un cenno contenuto. Non lo vide: il suo sguardo era già altrove, e io la volevo tutta, subito.
Dentro, una risata fredda: Finalmente — ti sei tolta quei stracci. Ora fammi vedere cosa nascondi.
Poi venne l’errore.
Non so come mi scappò. Una leggerezza, forse l’abitudine di uno scherzo da spogliatoio travestito da ironia.
Le scrissi “imbecille” — con un sorriso, credendo fosse una presa in giro tenera, un gioco fra noi. Appena premuto “invia”, sentii un gelo nello stomaco.
Rimasi a fissare lo schermo. Aspettavo il suo solito emoji, una replica svelta. Niente.
Un minuto. Cinque. Un’ora.
Il suo cerchietto “online” si accese due, tre volte, poi sparì. I miei messaggi restarono lì, allineati come soldatini: “Scusami, era una battuta scema”, “Non volevo ferirti”, “Parliamone”. Silenzio.
Il giorno dopo, in ufficio, la cercai con la coda dell’occhio. Lei passò oltre, composta, professionale, uno sguardo che non mi sfiorò. Mi fece più male di qualsiasi urlo.
Capivo di aver toccato qualcosa di fragile. Mi sentii piccolo. Idiota. Indegno di quel sorriso che, fino al giorno prima, mi rimetteva in vita.
Passò una settimana. Le scrissi ancora, a orari impropri, con parole troppo educate o troppo nude. Alla fine mi arresi e tentai la sola cosa che mi sembrò onesta: “Dimmi solo come rimediare.”
Rispose dopo qualche ora. Poche righe, misurate, senza accuse. Non era perdono, ma era una porta socchiusa. E davanti a una porta socchiusa non so restare fermo.
«Vuoi che venga dove sei tu?»
Lo digitai con una prudenza che non mi appartiene. Tre puntini sul suo nome. Poi: «Vieni.»
Infilai al volo il giacchettino di pelle color havana, presi lo zaino — dentro, niente — e le chiavi dell’auto. Volevo presentarmi semplice, senza corazze.
La trovai alla postazione. Non la salutai subito: la guardai.
Il naso sottile. La bocca tesa. Gli occhi che mi sfioravano come se temessero di cadere addosso. Dissi “ciao” come se fosse una parola sacra. Lei rispose con un cenno.
Squillò il telefono del banco; la sua voce professionale tagliò l’aria, il ritmo delle sue frasi perfetto. Io, al lato, tenevo le mani ferme per non tradire la fretta di riaverla.
Me ne andai in sala riunioni. Lavorai mezz’ora senza leggere una riga del documento sullo schermo.
Ci riprovai con la via che conosco meglio: l’organizzazione.
Chiamai la portineria e posai la voce sul compito, come se parlassi a un fornitore:
«Dovrei visionare l’auditorium per un workshop. Puoi portarmi su le chiavi?»
La attesi fuori dall’ascensore.
Quando arrivò, teneva il mazzo di chiavi nel palmo, come si tengono gli oggetti che non devono cadere.
Mi guardò un attimo. Bastò.
Entrammo nel corridoio che porta all’auditorium: luci basse, il ronzio sommesso dell’impianto, i nostri passi che battevano come un metronomo lento.
Appoggiò la chiave nella toppa: click.
La porta cedette. Un soffio d’aria fredda. L’odore di legno lucidato e velluto vecchio.
Dentro, il silenzio aveva un suono pieno.
Le poltrone vuote erano disposte come un esercito in attesa. Il palco scuro sembrava una riva.
Mi parlò delle luci, del proiettore, della capienza.
«Si può fare», «si accede da qui», «il tecnico arriva in dieci minuti».
Io la ascoltavo e seguivo il disegno delle sue mani nell’aria. Erano delicate. Sicure.
Pensai a quante volte quelle mani avevano messo ordine nelle mie giornate senza che io me ne accorgessi.
«Roberta.»
La fermai con il nome, nudo.
Lei si voltò piano, come se il suono l’avesse tirata per un filo sottile.
«Non avrei dovuto scriverti quella parola.»
Stavo in mezzo alle poltrone, lontano un passo e vicino da far male.
«Non è il modo in cui ti vedo. È… un vizio idiota. E con te non voglio essere idiota.»
Non rispose. Abbassò gli occhi per un istante — uno solo. Poi fece un mezzo sorriso che mi spaccò in due.
«Le chiavi», disse, «le lascio a te o le riporto giù?»
Il mondo poteva precipitare.
Sussurrai: «Lasciale un momento.»
Fece un passo. Io ne feci mezzo.
Ricordo la polvere che brillava nel raggio di luce del faretto d’emergenza.
Ricordo il mio respiro che cercava di non essere rumoroso.
Ricordo l’odore della sua pelle: pulito, semplice, quasi acerbo — arrivarmi addosso come un ricordo antico.
Se ci fosse stata una telecamera, ci avrebbe colti immobili: due persone che non osano, un centimetro tra le bocche, una città intera a trattenerci le spalle.
La guardai negli occhi e fu come affacciarsi su un posto dove non ero mai stato e che pure mi apparteneva.
«Sei arrabbiata con me?» chiesi.
«Molto.»
«Posso rimediare?»
«Non lo so.»
Non lo sapeva, eppure restava lì.
Imparai in quell’istante che restare può essere più sincero di qualsiasi perdono.
Non so chi si mosse per primo. So che il mondo corse via ai lati: il palco, le poltrone, la porta, tutto si fece cornice.
Le sfiorai il viso con il dorso della mano, piano, come si tocca qualcosa che si teme di rompere.
Lei chiuse gli occhi per un tempo che parve lunghissimo. Poi li riaprì. Dentro c’era un sì che nessuno aveva il coraggio di dire ad alta voce.
La baciai.
Fu un bacio pulito, ma profondo.
Senza fretta, senza pudore. L’incontro di due persone che avevano già deciso dentro di sé, senza averlo ancora ammesso.
Nel silenzio dell’auditorium risuonavano solo i nostri respiri. Sentii le sue dita cercare la mia nuca, il suo corpo avvicinarsi quel tanto che bastava a cancellare il centimetro che separa due vite.
Quando ci staccammo, nessuno dei due parlò. Non per mancanza di parole: per rispetto del terremoto.
Lei recuperò le chiavi dal sedile in prima fila.
Io le presi la mano — un tocco breve — e la lasciai andare.
«Domani», dissi.
«Domani», ripeté.
La guardai uscire. Sapevo cosa significava quel bacio: niente sarebbe stato più gestibile.
E per la prima volta da anni, accettai l’idea di perdere il controllo come si accetta un dono.
Fuori, il corridoio ricominciava a fare rumore.
Dentro, nel petto, tutto era chiaro: ero innamorato di lei.
Da prima di saperlo. Molto prima di avere il coraggio di dirlo.
Un giorno, all’uscita dall’ufficio, incontrai Marina.
La dirigente.
Quella con cui, da anni, condividevo più di qualche trasferta e più di qualche letto, soprattutto a Milano.
Il nostro era sempre stato un accordo silenzioso: niente domande, niente promesse.
Mi chiese di andare a pranzo.
Accettai.
Non perché volessi tornare a ciò che eravamo.
Ma perché dovevo chiudere.
E dovevo farlo ora.
Avevo paura che Roberta potesse intuire qualcosa.
Che leggesse in uno sguardo, in un gesto, in una battuta mal riuscita.
E questo no.
Non potevo permettermelo.
Con Roberta cercavo almeno di salvarmi la faccia.
Lei credeva che io fossi diverso.
E forse, con lei, lo ero davvero — almeno un po’.
Durante il pranzo le dissi che non ci sarebbero più state altre cene, né camere d’hotel.
Che era finita.
Lei non si sorprese.
Mi guardò, fece un mezzo sorriso e disse:
“Tranquillo, avevo già capito.”
Pagammo.
E uscimmo.
Quella fu l’ultima volta.
Una mattina portai Roberta alla Basilica di Santa Sabina, all’Aventino.
Mi muovevo sicuro tra navata e colonne, parlavo delle arcate, della luce che entra dalle vetrate alte. Le spiegavo la struttura, le indicavo un particolare, le dicevo dove la prospettiva prende corpo. Non parlavo solo di pietra. Le stavo mostrando qualcosa di mio.
E poi la baciai.
Non fu un impulso scomposto. Scelsi il momento. La luce filtrava dalle vetrate, la sua pelle si illuminava. La baciai e le dissi: «Adesso sei mia moglie.»
Urlai il senso della cosa in modo concreto: l’avevo baciata davanti al mio Dio. Per me era più di una promessa; era testimonianza. Volevo che capisse che quelle parole non erano retorica.
Vidi lo stupore sul suo volto. Rimase immobile, cercò il senso. Io invece capii subito. Sentii che quella consacrazione la teneva stretta, la legava a me in modo che nessuna parola di comodo avrebbe potuto disfare.
Un altro giorno la portai a Sant’Agostino, nella cappella Cavalletti.
Le mostrai il mio Caravaggio preferito — la Madonna dei Pellegrini — e la presi per mano nel dettaglio: le pieghe del panneggio, la luce sulle figure, il modo in cui il pittore temprava la sacralità con il reale. Le parlavo come se aprissi una porta di casa mia.
A volte le dicevo che era bella come la Madonna.
Lo dissi senza enfasi, come si dice una cosa vera. La vedevo arrossire. Mi piaceva vederla così: semplice, vera. Quelle parole la rendevano presente, diversa da tutte le altre che incontravo in corridoio.
Non avevamo ancora fatto l’amore.
Non ne sentivamo il bisogno.
Un bacio era già tutto: cancellava la distanza, spegneva il resto.
Bastava un bacio e il mondo spariva.
Arrivò quel giorno di sole sul mare.
Presi la scusa della colazione e guidai fino alla costa. Il suo sorriso, la luce che la accarezzava, mi distraevano più di quanto mi piacesse ammettere.
Doveva essere mia. E io decisi che quel rischio valeva il calcolo.
Pensai a tutto con freddezza: non c’era spazio per esitazioni.
Il mare era tranquillo, la giornata normale; era proprio questa normalità a renderci pericolosi — esporre il controllo sotto il sole. Il desiderio non era confuso: era preciso, insistente.
Entrammo in albergo. Era inevitabile.
Facemmo l’amore.
La guardai mentre la prendevo e le dissi, senza teatralità ma con chiarezza: «Voglio il tuo cuore e la tua anima. Tutto o niente.»
Non era una promessa vagabonda. Era una scelta netta, una condizione. Se fosse rimasta, le regole sarebbero cambiate.
La sua pelle contro la mia, il suo sapore, il respiro che cercava il mio — mi travolsero.
Non fu solo passione: fu riconoscersi in un’altra forma, un incastro che funzionava. Per me era anche questo: trovare un equilibrio nuovo dentro il disordine.
Quella stanza fu un confine tracciato.
Lì, per un tempo sospeso, non c’erano nomi o doveri: solo due corpi che si capivano. Tradimmo i nostri mondi. Lo sapevamo entrambi. Eppure, in quel momento, il resto era irrilevante.
Uscimmo dall’albergo e la realtà rientrò come sempre a piccoli passi.
Eppure sapevo che nulla, dopo quel giorno, sarebbe stato più gestibile come prima.
Roberta era entrata dove tenevo le cose più private. E io, per la prima volta da tempo, accettai che perdere il controllo potesse essere anche un guadagno.
Il giorno dopo il destino si prese gioco di noi.
Stesso ristorante. Stesse mura. Io con la mia famiglia. Lei con la sua.
Fu come avere un colpo allo stomaco. Ventiquattr’ore prima eravamo stati dentro una stanza che non conosceva regole; adesso recitavamo la farsa degli estranei.
I sorrisi erano troppo alti, le voci troppo alte. Tutto suonava sbagliato. Eppure bastò uno sguardo, una smorfia appena sentita, per capire che non ero l’unico a sapere la verità: anche lei sapeva che quel legame non era un errore banale ma qualcosa di reale.
Proibito. Follia. Sì. Ma anche — e questo mi terrorizzava — la sola verità che riconoscevo.
Lunedì: rientro in ufficio. Giacca in ordine, colleghi intorno. Ma fisicamente ero presente solo di nome. Dentro, non c’ero più.
Qualcosa si era rotto dentro di me. E non sarebbe più tornato come prima.
Ogni volta che incrociavo il suo sguardo, il resto si dissolveva. Il superiore che parlava, le risate in corridoio: rumore di fondo. Io vedevo solo lei. Punto.
Il suo saluto ironico mi trapassava come una lama. Restava addosso, persistente, come il profumo che ormai conoscevo a memoria. Ogni dettaglio — il timbro della voce, il calore del respiro, quella mistura di fragilità e decisione — era diventato il mio punto fisso.
Uscivo dall’ufficio e la immaginavo ancora accanto a me, in quella stanza dove avevamo smesso di fingere. Una volta a settimana. Una stanza qualunque. Un universo che solo noi conoscevamo.
Con lei avevo scoperto modi di amare che non pensavo più possibili. Avevo avuto storie, un matrimonio, relazioni; eppure Roberta era qualcosa d’altro: scoperta, vertigine, follia, complicità.
A volte mi coglieva l’idea che lei avrebbe potuto lasciare tutto. Mi faceva paura. Perché io — così abituato al calcolo — non sapevo se avrei avuto quel coraggio.
Lei si arrabbiava quando dubitavo. Mi raccontava di cose vissute; parlava come chi è stata libera. Io la immaginavo disinvolta, e non capivo che molte di quelle cose le aveva vissute solo con me perché con me si sentiva libera. E quella libertà era il dono più vero che mi avesse fatto.
Una sera uscii per un aperitivo con i colleghi.
Una di quelle serate leggere, che non lasciano il segno.
O almeno così pensavo.
C’era anche una nuova arrivata.
Elegante, sicura di sé, uno sguardo che non scivolava mai per caso.
Mi osservava.
E io… lo lasciai fare.
Flirtammo.
Niente di esplicito, ma nemmeno innocente.
Parole misurate, sorrisi a metà, sguardi che duravano un secondo in più.
Le piacevo, e mi piaceva piacerle.
Perché sì, a me è sempre piaciuto piacere.
Anche quando non cerco niente.
Anche quando so che dovrei voltare lo sguardo.
Non ho mai disdegnato le avances, soprattutto se arrivano da donne così.
Mi nutro di quel tipo di attenzione.
Mi fa sentire ancora vivo, ancora dentro al gioco.
Mi fa dimenticare che sto invecchiando.
Ma quella sera, tornando a casa,
pensai a Roberta.
Non perché le avessi mancato davvero.
Non c’era stato nulla di concreto.
Nessun bacio, nessun corpo.
Eppure…
mi sentii sporco lo stesso.
Perché, mentre un’altra donna mi guardava così,
mentre io giocavo con il fuoco per alimentare il mio ego,
Roberta, da qualche parte,
forse stava pensando a me.
E io?
Io stavo tradendo il suo amore.
In silenzio.
Senza mani.
Ma con tutto il resto.
Mi guardavo allo specchio e vedevo un uomo segnato dal ruolo: stanco, logorato. Lei, invece, mi guardava come se fossi un’opera d’arte. Non me lo riconoscevo, ma quel suo sguardo mi scaldava.
Ogni messaggio che non arrivava era un vuoto. Ogni notifica che non fosse sua mi irritava. Eppure trattenevo tutto; non le davo tutto. Non confessavo a me stesso quanto fosse diventata la mia casa.
Era un amore proibito, certamente.
Ma l’unico in cui mi fossi sentito vivo dopo anni di silenzi matrimoniali.
Prima di Roberta ero sempre stato così.
Un profumiere.
Facevo sentire l’odore, ma non mi concedevo mai davvero.
Accendevo desideri, ma restavo distante.
Illudevo, stuzzicavo, poi sparivo.
Davo il minimo, e solo quando mi conveniva.
Anche con le altre donne —
quelle delle trasferte, delle stanze d’albergo, dei messaggi cifrati —
non c’era mai stato coinvolgimento.
Solo gioco.
Solo testa.
Mai cuore.
Mi piaceva far sentire che c’ero,
ma non mi lasciavo mai prendere.
Poi è arrivata lei.
E ha rotto quel meccanismo.
Roberta non cercava solo il profumo.
Lei voleva l’uomo.
Luglio 2024
Durante le ferie di Roberta, tornò a scrivermi una vecchia amica, Paola.
Di quelle che senti ogni tanto, ma che restano lì, in attesa di un varco.
Cominciò con il solito tono leggero, ironico, ma bastarono pochi messaggi per arrivare al punto.
“Dai, ma cosa fai con una così giovane?”
“Ha vent’anni meno di te, ti rendi conto?”
“Ti stai rovinando la reputazione.”
Fingeva di preoccuparsi per me, ma lo capii subito.
Non era Roberta il problema.
Era lei.
In realtà voleva che mollassi Roberta per aprirle la porta.
Voleva portarmi a letto, adesso, dopo tutti quegli anni di ammiccamenti mai consumati.
E lo sapevo bene, perché anni fa io stesso l’avevo voluta.
Ma non era mai successo.
Non abbastanza tempo, non abbastanza occasione.
Ora era lì, pronta.
A disposizione.
Eppure… non ci andai.
Perché, anche se Roberta era lontana,
la sentivo addosso lo stesso.
Quando partì per il Portogallo capii quanto fosse entrata nelle ossa.
Ogni giorno messaggi: foto, vocali, risate. Io seduto a tavola con la famiglia, ma la testa altrove. Una settimana intensa. Perfetta, per lei. Per me, pericolosa.
Prima di partire ci promettemmo che a settembre tutto sarebbe cambiato.
Io avrei divorziato. Lei avrebbe lasciato il compagno. Un progetto, non un salto nell’ignoto. Lo sapevo fragile, eppure glielo dissi. L’illusione ci teneva a galla.
Agosto 2024
Toccò a me partire con la famiglia. Un mese lontano da lei.
Vuoto. Parole rubate in orari improbabili. Risposte mie tiepide, perché non sapevo più cosa promettere. Paura. Senso di colpa verso le mie figlie.
Cominciai a scavare dentro di me e raccontai dubbi che covavo da tempo: età, ruoli, incompatibilità. Lei cercava di rassicurarmi: «Non m’importa del tuo lavoro, dei tuoi soldi. Io voglio te.» Credevo alle parole. Non bastavano a spegnere il terrore di buttare via anni costruiti.
Quel mese mi riportò al giuramento fatto a Patrizia ventiquattro anni prima. Lei non meritava quello che le stavo preparando. Era la madre delle mie figlie. La sua bellezza era cambiata col tempo; la convivenza era fatta di silenzi, di piccoli gesti, di abitudini. Il sesso era sporadico, meccanico, ma aveva una sua verità quotidiana.
Le avevo promesso fedeltà davanti a Dio, ai miei genitori, ai suoi. Non l’avrei lasciata, mi dicevo.
Rientrato dalle ferie provai a evitare Roberta in tutti i modi. Mi aggrappai al dovere: famiglia, responsabilità, ragione. Mi raccontavo che stavo facendo la cosa giusta. In fondo — mi ripetevo — lei non faceva parte della mia cazzo di vita.
Era una bugia. E la bugia bruciava.
Ottobre 2024
Roberta aveva lasciato il compagno.
Aveva preso casa da sola.
Aveva mantenuto la promessa.
Io no. Io avevo solo nuove scuse.
Le dissi parole che ancora mi bruciano:
«Ti sei fatta un film che non esiste. Tornatene dal tuo ex.»
Poi, quasi vomitandola per difesa, aggiunsi: «Non voglio vivere con te, né ora né mai. Non mi fido di te.»
Non era vero.
Quella parte la recitai anch’io, parola per parola.
Ero solo troppo vigliacco per smettere di fingere. Le caricai addosso ogni colpa sperando che si stancasse e, insieme, tremando, speravo che restasse.
La vedevo spegnersi. Io restavo a metà: un piede con lei, un piede nella mia vita ufficiale.
Weekend in famiglia. Foto con mia moglie, passeggiate mano nella mano in centro. E poi le notti rubate, il conforto segreto.
Non ebbi il coraggio di scegliere.
Scelsi la via peggiore: la tenni sospesa.
Lei voleva un compagno. Io le diedi una parentesi.
Lei cercava una famiglia. Io, un rifugio.
La verità è questa: non smisi mai di amarla.
Ma non l’ho mai amata tanto da abbattere le mie mura.
E così la persi.
O peggio: la legai a me con fili invisibili e non le diedi il futuro che meritava.
Alla fine, mia moglie non l' avrei mai lasciata..
E Roberta… l’ho lasciata a metà.
...